8. Lascia stare

Un giorno, ho deciso che sarei diventata ufficialmente, completamente vegetariana. Bisogna saper scegliere ( in tempo, non arrivarci per contrarietà ), mi sono detta.

Così ho smesso del tutto di mangiare carne e ho cominciato a sognare bistecche. Davvero. Mi svegliavo e avevo voglia di bistecca. Era mattina, non avevo ancora fatto colazione e volevo una bistecca. Disastro! Improvvisamente, l’idea di non mangiarne più nemmeno un angolino di tanto in tanto mi sembrava insopportabile.

Cos’è, sono in astinenza? – mi chiedevo, allarmata – Ho una dipendenza nei confronti della bistecca? Perché, poi, la bistecca? Avrei capito di più il pollo del mercato… La bresaola… Gli spaghetti allo scoglio… Perfino quello strazio di gallina ripiena! Ma perché la bistecca, cazzo?!

Ho confidato i miei travagli al tipo strano, che ha dichiarato, deciso: “Se devi stare così, lascia stare”.

Ho lasciato stare.

 

 


7. Poi, un giorno, ho deciso

Gianpazienza, bisogna riconoscerlo, non ha mai cercato di convincermi a diventare vegetariana. Mai. Diceva: “Io non faccio proselitismo” e, ad eccezione di quella storia del cimitero, parlava della questione solo se interrogato. Mi osservava mangiare qualsiasi tipo di alimento senza battere ciglio, o meglio, quando mangiavo i cachi abbassava elegantemente gli occhi perché, siamo onesti, ero uno spettacolo piuttosto disturbante. E lo sono ancora, in effetti. (Mhmm, i cachi! I cachi! Anche il galateo definisce l’unico modo corretto di mangiarli quello di tuffarcisi dentro… Così mi pare, almeno.)

Grazie alla sua silenziosa condotta, però, mi sono posta per la prima volta delle domande e ho iniziato ad avvertire disagio. Non solo di fronte a certi cibi e alle umane incoerenze, ma anche per il fatto di non essermi posta prima quelle domande.

Quando abbiamo cominciato a vivere insieme, ho smesso di comprare carne e pesce non perché me l’avesse chiesto lui, ma perché mi andava così. Fuori casa, invece, la mia alimentazione continuava ad essere onnivora.

Poi, un giorno, ho deciso.

 


6. Non è questo il punto

A me, tra l’altro, piaceva più il ripieno dentro la gallina della gallina. Ma non è questo il punto. Io amavo ciò che il pennuto spennato rappresentava: un rito. Lo so, sono noiosetta. E non c’entra con la festività natalizia, ché da noi Babbo Natale era quasi uno sconosciuto; riguarda le usanze familiari che sentivo preziose, che immaginavo eterne.

Eppure, dieci anni dopo quel tra noi non funzionerà, la vita insieme al tipo strano prosegue con grazia e letizia (un tipo che ora starà pensando, ne sono certa: ah sì? puoi mica presentarle anche a me, Grazia e Letizia?).

Quindi? Quindi ho dovuto, per prima cosa, riconsiderare la sacralità della gallina ripiena… E, semplicemente, accettare il mutare delle abitudini. Il rinnovarsi dei riti.

P.S. Col senno di poi, il pensiero più saggio da fare all’epoca sarebbe stato: cazzo mene della gallina, speriamo che Gianpazienza mi cucini con regolarità almeno qualche zucchina… E invece.

P.P.S. Io comunque neanche dieci anni fa dicevo cazzo mene. È che mi faceva tanto gggiovane, tanto Ghali…


5. Tra noi non funzionerà 2

Insomma, fino a un certo punto, io amavo mangiare la carne e il pesce. Poi è arrivato lui. Sì, proprio lui!

Quando, in qualche giro insieme, giungeva fino al nostro naso aria di carne, io dicevo, d’allegrezza piena: “Mhmm, buono!” e lui diceva, con pacata gravità: “Sento odore di cimitero”. Quando si avvicinava l’ipotesi di una grigliata, io mi leccavo i baffi e lui tirava dritto.

Proprio un tipo strano, Gianpazienza.

La prima volta che mi sono detta tra noi non funzionerà è stata quando ho visto mio papà, come di consueto a Natale, indossare i guanti e preparare i suoi strumenti da chirurgo per aprire, svuotare, imbottire, ricucire una gallina ruspante.

Tra noi non funzionerà, ho pensato, perché lui non mi cucinerà mai a Natale una gallina ripiena.

 


4. Un profumo pazzesco 2

D’un tratto, ho capito: la carne, per piacermi davvero, non doveva ricordarmi l’animale di cui era stata parte. Ad eccezione del pollo, che poteva anche essere intero. Nella mia testa c’erano infatti due categorie distinte di polli: i polli vivi nel pollaio, durante le passeggiate in montagna, e quelli arrosto in tavola, il sabato a pranzo. Mi piacevano entrambi. I primi erano chiassosi e simpatici, i secondi avevano un profumo pazzesco.

Anche le mucche al pascolo mi piacevano. Da bambini, nelle giornate d’estate, io, mio fratello e i nostri due inseparabili amici di gite le incontravamo spesso e una volta abbiamo provato pure a cavalcarle, ma non ricordo com’è andata a finire. Un’altra volta abbiamo tentato di mungerne una, ma io ho smesso subito perché stringerle la mammella mi faceva un po’ schifo.

Chissà dov’era, il suo vitellino.