Di solito sono una personcina calma. A scuola mi raggiungono infinite insolenze, ma io mi sento come un bersaglio su cui le freccette non si attaccano, nonostante lanci apparentemente vigorosi. Magari dico: “Mettete via il cellulare!” e la risposta che ricevo è: “Ma un attimooo! Dobbiamo finire la partita!”. Magari c’è la verifica e molti studenti non hanno, non dico un foglio, ma neanche la penna. Magari parlo del 25 aprile e qualcuno dice: “Mettitelo nel culo, l’ombrello”. Parlo dell’invasione della Polonia e qualcuno dice: “Ho scoreggiato”. Parlo di tesi e antitesi e qualcuno dice: “Se sapessi come succhia”. Ma resto calma.
Di tanto in tanto, però, la calma mi abbandona e mi sento invadere da un’ira funesta che neanche Achille, sospetto. Non è sempre un evento grave a farmi smarrire la strada della lucidità, ma una goccia di disimpegno o di maleducazione in più. Di colpo non sono più io, sono mio papà durante la mia irrequieta adolescenza. Forse ho anche la stessa vena che pulsa sulla tempia. Certamente sono paonazza come lo era la maestra Anna quando perdeva le staffe. Il cuore batte più forte e il caldo mi invade, così tolgo la giacca e la butto con foga sulla sedia, ma dalla sedia cade per terra e tutto quello che ho in tasca rotola intorno, cellulare compreso. Inizio a diventare uno spettacolo curioso e gli studenti mi guardano, ma io non li vedo perché non sono più nella mia classe piena di buchi alle pareti e bestemmie nell’aria: sono dentro una canzone degli Zen Circus e forse ora urlerò che la mancanza di rispetto/ dovrebbe essere un reato/ come anche l’idiozia. Allargo i polmoni e sputo fuori l’ira funesta con tutta la voce che ho in corpo. Mentre strepito vorrei spaccare tutto, ma mi limito a colpire rabbiosamente la cattedra con la mano. Mi faccio malissimo. Nessuno fiata, ma qualcuno a un certo punto alza gli angoli della bocca, trattenendo un sorriso. Quando me ne accorgo, lo guardo come il verme più verme del regno dei vermi e sibilo: “Dimmi, ti faccio ridere?” Lui giura di no. Giurano sempre, i ragazzi, e giurano il falso, di solito. Ma ormai la mia ira si è infiacchita, tra poco tornerò a essere un bersaglio su cui le freccette non si attaccano. Mentre mi siedo senza più parole, qualcuno si alza e mi sorride: “Profe, non si arrabbi che le vengono le rughe”. Le rughe. Eccolo, il mio problema. Scuoto la testa, pensando alle parole del collega di meccanica: “Non vale la pena arrabbiarsi. Se non scorre sangue, lascia andare”.
sicuri sicuri che non vale la pena arrabbiarsi? MAI MAI MAI?
e se ti mettessi a cantarla “la mancanza di rispetto/ dovrebbe essere un reato/ come anche l’idiozia. “?