Oggi il nostro fiore compie tre mesi. Tre mesi ricchissimi in cui ho provato tanta meraviglia e avuto rivelazioni inattese.
Innanzitutto ho conosciuto l’universo frastornante dell’ospedale e ho capito che nel parto se qualcosa può andare storto lo farà. Meno male allora che c’era Gianpazienza amoroso a dare il benvenuto al mondo al nostro ometto.
Ho poi provato il sollievo di tornare nella quiete della nostra casa, l’incanto di ritrovarci uno in più, il timore che il cane non mi amasse più.
Ho sperimentato la tortura della mancanza di sonno, le notti interminabili, le giornate tutte uguali. L’ansia per il latte che non arriva, che arriva ma magari non è abbastanza. La preoccupazione per il peso che sale poco, che sale bene ma domani chissà. I drammoni per il mal di pancia, soprattutto.
Ho preso atto che il modo più efficace per calmare il nostro Giovannino Perdigiorno, oltre a riprodurre un suono che ho imparato a yoga per la gravidanza, è fargli ascoltare una canzone il cui ritornello fa: perché lavori se poi godi solo a metà? / perché lavori se poi muori che lavori a fa’?
Ho sentito il fardello della responsabilità per un altro essere umano franarmi addosso d’improvviso il pomeriggio delle prime vaccinazioni, quando una dottoressa mi ha chiesto: allora suo marito ha delegato lei? e io, senza marito e senza delega, ho scelto di far bucare le cosce all’ometto e di fargli riempire la gola di goccine e poi sono stata invasa dal terrore di aver sbagliato e allora ho pianto, sospirando: diventerà autistico! e il signor dottore mio padre, a cui avevo rivolto il sospiro, ha fatto la faccia di uno che ha appena scorto uno spinosauro in salotto e mi ha così liquidata: tu sei scema! e poi: sei diventata terrapiattista?
Ho osservato con curiosità la relazione tra l’ometto e il mio seno. Una relazione travolgente, con tuffi di testa e versetti d’amore e bocca ingorda spalancata. I due però vivono anche momenti di malumore che si esprimono con raffiche di pugnetti e testate irose e pure momenti scoppiettanti fatti di puzzette, rigurgiti, scaricone mefitiche.
Ho ricevuto tanto affetto e sostegno e vicinanza e quanti doni e parole dolci. Quanta nuova allegria in famiglia. E che fortuna vivere il viaggio con il mio ometto insieme a una cara amica e al di lei ometto.
Quando non sono stravolta, mi sento molto grata e felice per tutto questo. Tanto che mi verrebbe voglia di aggiungere qualcosa al saluto con cui la mia maestra di yoga talvolta chiude le sue lezioni. Dopo il superamento delle difficoltà e la fine delle dispute, dopo la salute nel corpo, l’agio nella vita e la felicità nel cuore, io vorrei dire: possano tutti gli esseri, se lo desiderano, provare l’amore per un figlio o una figlia.
Auguri, ometto.
❤️
Che incanto! E che mito il signor Dottore. Me lo figuro proprio, imperturbabile e lapidario!