io piace


Una bionda a Monte Carlo

Dopo i piccoli stranieri tenerelli e quelli grandi disoccupati e moltissimo disagiati. Dopo la ragazza Erasmus, la studentessa di moda e design, la donna col velo che camminava controvento. Dopo l’igienista dentale peruviana, gli ingegneri brasiliani e le ingegnere polacche. Dopo tutto questo, d’improvviso, eccola.

Ha ventidue anni ed è bellissima. E altissima. E biondissima. E anellatissima. E profumatissima. Ma soprattutto, lei è superlativamente fashion.
Tipo che viene a lezione con il tailleur bianco.

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Sempre così

È sempre così. Sono felice di vederla, ma, appena arrivo, vorrei già andarmene. Mi trattengono le sue storie, che scorrono e scorrono e sembrano non finire mai. Storie che ti immobilizzano e, nello stesso tempo, ti fanno venire voglia di fuggire lontano. Di raggiungere con un balzo il tuo baobab, lasciandoti alle spalle quelle stanze pulite e cadenti, quel quartiere che urla indigenza, quegli occhi lucidi cerchiati di un nero più nero della sua pelle.
M.B. è una signora senegalese in Italia da ventitré anni, con quattro figli di cui uno, il maggiore, in Africa da sempre. È piccola e grassa, indossa chiassosi abiti tradizionali e parla lentamente con una voce che sa di antico. L’ho conosciuta anni fa, in un corso di italiano che tenevo per stranieri disoccupati. Oltre a lei, ricordo di quel periodo un ragazzino inglese, S. I Don’t Understand. Poi Laila nata Fabio che cantilenava in brasiliano. Una piccola signora pachistana completamente intunicata di nero e non alfabetizzata. Una giovane russa molto in gamba e moltissimo saccente. Una signora ucraina mediatrice culturale che non aveva certo bisogno di migliorare il suo italiano. Donne dell’Est in minigonna e uomini indiani tutti in bianco. Un ragazzo moldavo con gli occhi di ghiaccio, determinato a uscire con me.

Siamo noi gli altri, Malamente

Siamo noi gli altri, Malamente

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S. che piange, il bruco che crede

Non stava bene ieri, la mia allieva S. L’ho capito subito, anche se mi ha sorriso di un sorriso scintillante mentre ci scambiavamo un buonissimo anno.
S. in questi mesi ha voluto perfezionare la conoscenza del suo già ottimo italiano, in modo da poter trovare più facilmente (!) lavoro. Mediatrice culturale e insegnante di arabo, ecco quello che si augura. Trentatré anni, un marito, due figlie, una laurea in Economia che qui non è riconosciuta. Un milione di progetti, una forza straordinaria avvolta in modi garbati, pezzettini di cuore sparsi tra Africa e Francia. Questa è la mia allieva S., una di quelle persone che ti fanno esclamare: La meraviglia delle meraviglie! Insegnare italiano L2 è proprio il lavoro più favoloso che ci sia! Anche più di gestire un piccolo profumato salone da tè a Tofino, sull’isola di Vancouver… Oh cielo! La buona sorte!
Ieri, però, qualcosa non andava. S. era proprio giù. Come di consueto, le ho fatto ascoltare una canzone per lavorare su ascolto lessico e bla bla bla. Ma che canzone! In bianco e nero di Carmen Consoli, che racconta del rapporto con la madre che non c’è più, di foto sbiadite, di dispiaceri. L’ho capito alla prima strofa, che non era stata una buona idea. Alla seconda strofa, ho guardato il soffitto chiedendogli tacitamente: Concordi, o soffitto, che ho una sensibilità da bruco macaone? Il soffitto ha annuito e alla fine della canzone S. si è messa a piangere. Non che non ci sia più, sua mamma. C’è, ma vive in Marocco e in dieci anni avrà abbracciato S. tante volte quante sono le dita di una mano monca. Madre e figlia si riabbracciano solo quando ci sono abbastanza soldi per un biglietto aereo per quattro persone. E in una famiglia con un unico stipendio residente nel salato Nord Italia, questo avviene ogni tot e tot e tot anni.
Piangeva allora S., alla fine della canzone. E io, da bravo bruco, sono strisciata via, a cercarle un bicchiere d’acqua e a schiaffeggiarmi con una lunga fila di zampette. bruco che striscia (altro…)


Il mio amico badante

Mentre corro, la mattina al parco, tutt’intorno la gente gioca si allena piscia cani. E mentre il mio corpo fatica e la mia testa vaga tra ozio e vacanze, lo vedo. Ha ventidue anni, l’Africa nel cuore e sulla pelle, e tre anni di vita lombarda. Non è solo. Sorregge un nonnino malato di Alzheimer, il suo nuovo paziente. Lo fa camminare, piano piano. Il ragazzone nero e il vecchierello bianco, insieme, un passo dopo l’altro, avanti e indietro. Poi la panchina e piccoli lanci con la palla, per allenar le mani. Per un attimo il giovane si distrae e fa qualche palleggio, che alcuni anni fa, in Francia, giocava in  serie D. Eccoli di nuovo in piedi, a braccetto, un passo lento e un calcio alla palla, un passo lento e un calcio alla palla, e ancora e ancora. Poi sulla panchina il nonnino tutto curvo tira il fiato. Più tardi, la carrozzella e il ritorno a casa. L’anziano sarà aiutato a mangiare, a camminare, a riposare, sarà pulito, cambiato, accompagnato. Notte e giorno. Per il giovane, sarà forse fatica forse noia. Ma di sicuro giocherà con i suoi sogni. Li conosco io, i suoi  sogni. E so della sua determinazione, che gli ha fatto portare a termine obiettivi e conseguire titoli, da solo in un Paese estraneo, «perché io sono un grande ragazzo e ce la posso fare». Ce l’ha fatta anche ad accettare che in classe nessuno voleva mai sedersi accanto a lui. Lui che a me tuttora chiede: «Ma davvero la gente qui ha ancora paura dell’uomo nero? Ma faccio paura, io?» Eppure so che ora è contento. Dopo tanto cercare, dopo lavori in nero, dopo il volontariato, le attese e i curricula in tutto il Nord Italia, adesso ha un buono stipendio e un buon lavoro. E se è un po’ duro poco importa, è più duro non averlo, il lavoro, sostiene lui.

Lo chiamo. Si volta. Sorride. «Salut Beatriiis! Lui è il mio paziente… Ma hai già finito?». Ride. Poi torna serio: «E gli esercizi, non li fai?». È un tipo preciso, il mio amico badante. Mi tocca pure fare stretching.