Prima della parentesi Catarella, si parlava di persone dall’aria provata e l’animo sospeso nell’incessante noia.
È difficile, secondo me, resistere anche a una sola fetta di quella cosa enorme che è la perdita della libertà personale: la libertà di scegliere le persone con cui condividere tempo spazio intimità, la libertà di muoversi e agire in autonomia, ma non solo… Ci sono privazioni magari più sottili ma altrettanto aspre: avete mai pensato alla mancanza del silenzio, per esempio? Come ho già scritto, in carcere c’è sempre rumore: di giorno, ma anche di notte, quando gli strazi e le astinenze restano svegli e chiassosi. Il silenzio, si sa, serve anche per un percorso scolastico: i detenuti, però, non riescono a studiare nella loro sezione perché impossibilitati a concentrarsi (nonché a grande rischio irrisione: cosa pensi di fare con quei libri? Chi ti credi di essere?) e non possono studiare nelle più tranquille aule perché non hanno il permesso di frequentarle al di fuori dell’orario delle lezioni. E avete mai pensato agli spifferi? Sono solo soffi, eppure d’inverno, in una cella, devono dare il tormento.
Lasciamo stare gli spifferi e il rumore: ci vuole prudenza a parlare di privazioni quando si è semplici spettatori e troppo tatto a maneggiare i segreti del cuore, soprattutto quando non sono i nostri. Lasciamo alla musica cantarli, piuttosto.
Parliamo invece di come sono i miei studenti! Cominciamo da lei, ma badate bene che è un caso straordinario.
Lei è una signora di sessantatré anni, che conserva sul viso luci improvvise di bellezza, ha un corpo da ex atleta e un’intelligenza viva.
La prima volta che durante la pausa abbiamo conversato un po’ mi ha spiegato che la figa si può barattare, la dignità no. Così per mettermi a mio agio. Poi mi ha detto che le piacciono le donne, tutte tranne le rosse, e ha cominciato a parlare di Hitler. Lei parla sempre di Hitler. Disegna grandi svastiche nere e dice, con fare convinto, diciamoci la verità, un po’ di epurazione era necessaria… Oppure s’infuria, chiama Kunta Kinte il suo compagno africano e lancia tuoni contro le zingare con cui abita, contro le negre che mangiano troppo, contro le tossiche e le slave, contro chi non rispetta i turni per la lavatrice. S’infuria e urla: Tutte nei forni, quelle cretine! Saponette, saponette! Alterna sbotti di rabbia nera a momenti cupi in cui si chiude a riccio e guai a disturbarla, ché è pronta a colpire con i suoi aculei brevi e duri.
Una mattina, appena entrata, le ho detto buongiorno guardandola in viso e lei ha risposto, lo sguardo appoggiato alle sbarre: Ma come si fa ad augurare buongiorno in questo posto di merda?! La volta dopo ho ridetto buongiorno e lei ha taciuto, poi alla pausa si è avvicinata e si è rivolta a me con il tono paziente e pacato che si usa con le zuccone: Per favore, si ricordi di non dirmi buongiorno. La settimana successiva, per non rischiare, ha spalancato la porta esclamando: Al primo che dice buongiorno gli spacco il culo! Io allora ho richiuso la bocca e non l’ho mai più aperta per dirle buongiorno, perché lei non si fiderà delle zuccone ma io delle sue esclamazioni moltissimo.
Lei odia gran parte di ciò che riguarda le mie materie o magari me, non so, e spesso si alza e se ne va, uscendo dall’aula sbattendo la porta, poi rientra si siede si alza se ne va e così via finché io non le dico con un sorriso che assomiglia a una preghiera: Dai, diamo una chance ai Longobardi… e lei mi risponde con lo sguardo pieno di sconcerto: Non mi faccia bestemmiare!
Lei non sembra rassegnarsi e brucia per la pena che sta scontando come fosse un’imperdonabile ingiustizia. Soffre di un dolore profondo e davvero pare nata per far correre il suo corpo forte in uno spazio libero e invece è costretta a guerreggiare in quella gabbia che è diventata la sua vita. Una vita di giorni tutti uguali, di aculei svastiche insulti sputati in dialetto. Più qualche bolla di pace, forse: le sigarette, la musica classica, alcuni programmi in tv.
Lei ha vissuto una vita borderline, mi ha confidato un giorno un suo compagno e io ho immaginato una linea di confine: da una parte ci sono quelli con degli affetti vivi e vicini malgrado il carcere, dall’altra no.
Lei, su questa linea di confine, sta dalla parte di quelli che non vanno ai colloqui settimanali perché lì non c’è nessuno ad attenderli.
So che poi non lo farò, ma mi piace pensare di andare io un giorno a colloquio per provare a portarle un pezzo di Bagòss. Aveste visto quanta luce nei suoi occhi, la volta in cui qualcuno ha citato quel formaggio… (per la verità c’era ancora più luce quando si parlava di spiedo, ma capite che su quello non posso aiutarla, mangiando io bocconcini di lupino e cavolo cappuccio). Sì, vorrei portarle un pezzo di Bagòss e vedere se sorride. Perché talvolta lo fa, di sorridere. Di ridere, perfino. Succede di rado e di solito per cose che a me non divertono, ma quando il suo volto si apre al sorriso il carcere sembra un po’ meno un posto di merda… Davvero, viene quasi voglia di dirle buongiorno!